GLI ECOSISTEMI

Le piante, attraverso la fotosintesi clorofilliana, convertono l’energia luminosa in energia di legame chimico, rendendola disponibile, per la parte non spesa con la respirazione, agli altri commensali della comunità che costituiscono i produttori secondari quali gli erbivori, i carnivori, i detritivori. Si vengono così a stabilire per tale via delle scale trofiche dove a ciascun piolo l’energia, resa disponibile dal livello che precede, viene investita nell’accrescimento e nel rinnovo delle strutture biologiche di ogni singolo organismo presente a ciascun gradino.

di Antonio De Marco, ricercatore biologo evoluzionista, appassionato di etologia e docente universitario, che ha fondato e gestisce il Parco Faunistico di Piano dell’Abatino

La fiamma che si sprigiona nel camino dai ceppi di legno diffonde per la stanza un rassicurante tepore, mentre la vista è soggiogata dalle lingue di fuoco che scivolano via lungo la cappa. Un così rassicurante fenomeno trae fondamento da una infinitesima porzione di Sole che in un recente passato ha irradiato nel cosmo una certa quantità di energia luminosa; una piccola frazione di essa è stata intercettata dalla Terra e catturata dalle piante attraverso la fotosintesi clorofilliana; grazie a tale straordinario processo esse si sono rese capaci di imprigionare l’energia luminosa in legami chimici, costitutivi di molecole, quali gli zuccheri, e a partire da essi, attraverso differenti tappe metaboliche, le proteine e le sostanze di riserva.
La legna che arde nel camino restituisce dunque all’ambiente, sotto forma di calore, una parte di energia solare ora divenuta di bassa qualità in quanto poco idonea ad essere ulteriormente utilizzata dagli organismi viventi e destinata ad aumentare l’entropia dell’Universo. Nel caso dei combustibili fossili, come il petrolio o la benzina, l’energia che viene convertita con la combustione in forme non ulteriormente utilizzabili, ha origine molto antica e rimanda alle foreste di felci ed equiseti del Carbonifero, che popolavano gli attuali deserti circa 300 milioni di anni addietro.

 

Odum Dodson

 

Le trasformazioni e le utilizzazioni dell’energia solare da parte degli organismi viventi rimandano al concetto di ecosistema, fanno cioè riferimento a una comunità biologica che le contingenze e la selezione naturale mantengono in uno stato di instabilità stazionaria, idonea a permettere all’energia solare di percorrerlo rendendo possibile la vita. Sebbene ciascun ecosistema possa essere definito arbitrariamente, potendo essere rappresentato da una foresta, da uno stagno o da un campo coltivato, esistono comunque alcuni elementi costitutivi di esso che sono rappresentati da una comunità biologica che occupa un determinato paesaggio ecologico e i cui componenti svolgono funzioni diverse in relazione all’utilizzazione dell’energia che entra nell’ecosistema attraverso la radiazione luminosa.

Avremo così dei produttori primari, quali le piante, che attraverso la fotosintesi clorofilliana, convertono l’energia luminosa in energia di legame chimico, rendendola disponibile, per la parte non spesa con la respirazione, agli altri commensali della comunità che costituiscono i produttori secondari quali gli erbivori, i carnivori, i detritivori. Si vengono così a stabilire per tale via delle scale trofiche dove a ciascun piolo l’energia, resa disponibile dal livello che precede, viene investita nell’accrescimento e nel rinnovo delle strutture biologiche di ogni singolo organismo presente a ciascun gradino; una parte di essa viene comunque spesa per assicurare la respirazione e le altre funzioni metaboliche essenziali come il mantenimento della temperatura corporea, attività molto dispendiosa negli organismi omeotermi.

L’efficienza ecologica che si registra nel passare da un livello trofico al successivo è relativamente bassa: nel caso del primo livello, quello che vede le piante assorbire l’energia luminosa, la porzione di essa trasformata in energia potenziale, cioè nell’energia contenuta nel cibo, è in genere inferiore all’1%, e solo in condizioni ottimali raggiunge il 5%; il resto è convertita in calore. Ai livelli successivi in genere l’efficienza ecologica non supera il 10%. Nel caso degli erbivori l’efficienza di sfruttamento, costituita dalla capacità di utilizzare come risorsa la massa vegetale disponibile, è spesso inferiore al 10% per le pressioni che i carnivori esercitano sugli erbivori con la predazione, impedendo loro di raggiungere una densità tale da permettergli di appropriarsi di un maggiore numero di risorse vegetali; le stesse piante mettono spesso in atto strategie atte ad ostacolare l’erbivoria, come essere forniti di spine, sostanze tossiche, odori sgradevoli.

Non tutta la massa ingerita come alimento viene assimilata, e l’efficienza di assimilazione si attesta per gli erbivori intorno al 30-40%, mentre nel caso dei carnivori tali valori raggiungono anche l’80%. L’energia assorbita col cibo viene in parte utilizzata per assicurare il metabolismo basale ed in parte destinata alla produzione di nuova biomassa. L’efficienza di produzione della nuova biomassa, cioè quella destinata a formare carne, muscoli, tessuto nervoso, è connessa alle caratteristiche peculiari dei vari organismi, in quanto essi utilizzano l’energia assorbita in relazione alle loro differenti strategie comportamentali e fisiologiche. Nei soggetti omeotermi, come l’uomo o gli altri mammiferi e gli uccelli, l’efficienza di produzione non supera il 2%, in quanto gran parte dell’energia assimilata viene spesa per mantenere i valori della temperatura corporea intorno ai 36-38 °C, mentre nei rettili o negli insetti, organismi eterotermi, il valore si attesta intorno al 40%. Ovviamente, nell’ambito di ciascun gruppo di omeotermi o di eterotermi, i comportamenti specifici fanno variare i valori di riferimento: un colibrì ha un’efficienza di produzione molto più bassa di un pollo di allevamento, così come un’ape, insetto sociale, rispetto ad un coleottero.

Il passaggio da un livello trofico a quello successivo comporta dunque un continuo declino dell’energia disponibile: questo fatto fa sì che negli ecosistemi naturali è difficile avere un numero di livelli trofici superiore a tre. Solo in alcuni ecosistemi acquatici, con condizioni abiotiche ottimali, che favoriscono la stabilità e la biodiversità, si possono osservare anche fino a sei livelli trofici. Graficamente, si può rappresentare questo fenomeno attraverso la piramide alimentare alla cui base si collocano le piante e al vertice i carnivori terminali. A titolo esemplificativo, da un punto di vista delle biomasse, possiamo figurarci alla base della piramide 100 Kg di erba medica che servono per produrre 10 Kg di coniglio che a sua volta producono 1 Kg di lince.

Un sistema ecologico si caratterizza per essere un sistema aperto in cui l’energia, costituta in gran parte da quella irradiata dal Sole, vi penetra e, dopo avere consentito alla comunità biologica che lo sottende di svolgere le sue funzioni vitali, vi fuoriesce sotto forma di calore di dispersione. Il fatto che ogni passaggio di gradino trofico comporti una diminuzione della quantità di energia disponibile, non impedisce a quella rimasta di assumere una migliore qualità. In realtà gli ecosistemi naturali sono ben lontani dal possedere una condizione di stabilità energetica e si caratterizzano per presentare strutture altamente complesse, idonee a mantenere un alto grado di ordine interno; ciò è ottenuto mediante una continua e idonea dispersione di energia di scarsa utilità, cioè ad alta entropia. La respirazione che si verifica ai vari livelli dell’ecosistema, è appunto un’efficiente struttura dissipativa che pompa continuamente fuori il disordine energetico.

Un altro elemento che caratterizza, dal punto di vista dei flussi energetici, gli ecosistemi naturali, è dato dal fatto che essi sono capaci continuamente di auto riparazione, utilizzando la loro energia potenziale senza fare ricorso all’apporto di energia sussidiaria. Il contrario avviene negli ecosistemi costruiti dall’uomo come serre, monocolture, allevamenti intensivi dove le alte rese produttive sono rese possibili dal fatto che vi è un continuo apporto di varie forme di energia dall’esterno, attraverso l’immissione di concimi e di pesticidi, l’impiego di macchine agricole, l’irrigazione, le tecniche di selezione genetica.

I differenti ecosistemi, pur nell’arbitrarietà con cui sono identificati, ci aiutano dunque a comprendere meglio i vincoli energetici dentro cui le forze che sorreggono i processi selettivi naturali operano nei confronti di ciascun livello trofico. Così come le comunità biologiche rimandano ad un concetto funzionale centrato sulle interazioni fisiologiche e comportamentali che i vari membri di ciascuna comunità intrattengono tra loro, similmente gli ecosistemi vanno riferiti alle interazioni energetiche che si realizzano spazialmente tra i vari soggetti di ogni comunità. E come le comunità sottendono l’iniziale casualità delle associazioni dei commensali e sono sottoposte nel tempo a trasformazioni discontinue, ugualmente gli ecosistemi vanno percepiti come sistemi termodinamici aperti, costituitisi sulla base della contingenza e della necessità, soggetti a continui scambi di energia e in grado di fare diminuire l’entropia interna a spese dell’incremento di quella esterna in accordo alle due leggi della termodinamica.

Sui diversi temi affrontati in questo articolo si può fare riferimento alle seguenti indicazioni bibliografiche libri